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Spie fra di noi


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In effetti questo post ha poco a che fare con le moto, ma a Bologna e dintorni ci sono capitato per questioni di moto (ero al secondo corso BSE, come scritto qualche post fa). Il fatto è che altrimenti non saprei dove mettere questo racconto e poi il blog è il mio e decido io cosa ci passa e cosa no :)

20:01, aeroporto di Bologna, partenze nazionali.

L’imbarco per Cagliari non è ancora aperto, ma, come al solito, molti passeggeri sono già in attesa. Non sembriamo tantissimi, probabilmente l’aereo non sarà pieno come all’andata, tanto che molte delle poltrone sono libere e posso sedermi occupandone un’altra con lo zaino. Mi tolgo il giubbotto (nei locali chiusi di Bologna fa un caldo bestia, in albergo ho dovuto dormire con la finestra aperta nonostante i 4 gradi sottozero all’esterno) e accavallo le gambe. Lo sguardo passa veloce sul tabellone dei voli che ho letto almeno 75 volte negli ultimi minuti, come se quel “Bologna-Cagliari Meridiana 20:45” potesse per magia trasformarsi in “Bologna-Cagliari Meridiana 20:05”. Sposto lo sguardo sulla fila di negozi e bar e mi stufo subito, così finisce che mi guardo le scarpe da trekking. Noto che, nonostante sia mimetico, il pantalone presenta delle macchie anomale, non certo di serie, vicino alla caviglia, delle macchie gialle e verdi. Cosa potrà essere? Ci penso e quasi subito ho la riposta! Il pranzo di ieri al Tempio!

Sono venuto a Bologna per partecipare a un corso full-time che ha occupato tutta la giornata di sabato, ma ho approfittato della cosa per partire un giorno prima (anche in virtù dei particolari orari degli aerei) e togliermi la curiosità di andare a visitare il Gurdwara di Novellara, a pochi chilometri da Reggio Emilia.


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Cos’è un Gurdwara? Il Gurdwara è il tempio della religione Sikh, un luogo di culto, ma soprattutto di incontro. Non ho ancora capito bene perché, ma la parola Sikh spesso suscita pensieri strani legati a personaggi violenti ed esaltati, a sette idolatrici di strani feticci e cose del genere; niente di più sbagliato. Forse è l’enorme confusione che noi occidentali abbiamo in testa sulle popolazioni, sulla storia e sulle religioni a far si che appena sentiamo un nome “strano” ci appaiono visioni mistiche e leggendarie, raccolte ora dalla TV, ora dai romanzi, ora da chissà dove, e a prendere l’uno per l’altro concetti come Kriss e Kirpan o Sikh e Thug, diametralmente opposti. Insomma, è facile fare un minestrone unico dove dentro ci sta tutta l’Asia, intera, senza considerare la sua infinita vastità geografica, culturale e storica al cui confronto la nostra piccola Europa è davvero misera cosa.

Il Sikhismo, dicevo, è una religione molto particolare che, nata sul finire del 1400, racchiude in se principi e idee di una modernità assolutamente stupefacente.

Il Sikhismo ha origine in India, in un periodo in cui le due principali religioni del subcontinente si sono irrimediabilmente piegate a logiche di potere, trasformando idee e principi in mere giustificazioni dello status quo. La promessa di un paradiso oltre la morte per i mansueti, a riscatto delle sofferenze e dei torti subiti in terra, dell’Islam (in questo senso simile al cristianesimo), viene usata come arma per scoraggiare le masse alla ribellione. I brahmani consolidano i concetti di “casta” Induisti che oltre a determinare cosa possano e non possano fare le persone (incluso il combattere per difendere i propri diritti), giustificano la posizione delle classi dominanti. Sempre i brahmani, attraverso il concetto di incarnazione divina, qualificano agli occhi del popolo il potere di chiunque, impugnando un’arma, abbia conquistato un trono con il sangue e, al tempo stesso, motivano il loro stesso potere attraverso rituali religiosi (a pagamento) sempre più vicini alla superstizione e alla magia da baraccone.





Insomma, due religioni dai principi e dai fondamenti nobili, antichi, e profondi completamente distorte e corrotte (come spessissimo avviene) dalla miseria umana e dai giochi di potere.

Contro tutto questo nasce il Sikhismo, per opera di Guru Nanak, e si sviluppa successivamente attraverso altri nove Guru. Al termine di questo periodo i Sikh hanno ritenuto chiusa l’epoca dei Guru e si sono affidati esclusivamente al loro libro guida, l’Adi Granth (l’unico vero Guru riconosciuto dai Sikh). Il testo è stato scritto dai primi 4 Guru (uno dei rari casi in cui il libro sacro di una religione sia stato scritto di pugno dai suoi fondatori) e racchiude tutta la dottrina del Sikhismo.

I principi base di questa religione nascono tutti in contrapposizione alle religioni dominanti dell’epoca (o meglio alla forma distorta che avevano assunto) e anche le cose che possono apparire dogmatiche e puramente simboliche hanno in realtà un significato molto profondo.

Il Sikhismo crede in un solo Dio, in contrapposizione all’infinito panteon induista, troppo spesso “adattato” a seconda delle convenienze e sempre pronto ad adottare nuove forme divine per assecondare le nuove figure al potere.





Tale Dio non si incarna, pertanto nessun essere umano può dichiararsi o essere ritenuto una divinità, cosa che fa cadere in un lampo le basi su cui tantissimi poteri, spesso proprio i più ottusi e violenti, hanno edificato la propria autorità.

Secondo il Sikhismo tutti gli esseri umani godono di uguali diritti davanti a Dio e agli uomini, indipendentemente da sesso, colore della pelle cultura o religione (ebbene si, il Sikhismo predica la parità di diritti fra religioni: <<«davanti a Dio non c'è indù, non c'è musulmano» ma soltanto carità, servizio e preghiera>>). Questo contrasta fortemente con certe idee Islamiche (specialmente sulla parità dei diritti fra i sessi, non tanto predicata dal Corano, quanto dai sui interpreti) e la concezione distorta della caste generata dall’evoluzione (o per meglio dire involuzione) dell’Induismo dell’epoca. I Sikh aggiungono un titolo al proprio cognome: Singh per gli uomini (leone) e Kaur (principessa) per la donna. La donna è considerata esattamente alla pari dell’uomo (qualsiasi discriminazione, anche non sessuale, non è concessa nel Sikhismo) e può pertanto partecipare a tutte le funzioni religiose e sociali esattamente come gli uomini. Altra cosa molto importante, specialmente per quel periodo, è la possibilità per vedovi e vedove di risposarsi e il rifiuto totale della Sati, la pratica Induista che pretendeva che una donna rimasta vedova si suicidasse gettandosi nel rogo funebre del marito.

Il Sikhismo non ha idoli e non rappresenta Dio in alcuna forma: simboli, statue o altro. Anche questa idea è determinata dal voler contrastare l’idolo come elemento dominante sul popolo, unito al Tempio come luogo di sottomissione e meccanica ritualità, come luogo di vendita di cerimonie e indulgenze.

Il potere temporale della chiesa Sikh è affidato alla comunità Sikh, quindi a tutti i Sikh e non a una gerarchia di “professionisti della religione”. Questo per negare l’assurdità di preti, sacerdoti e ministri che fanno del potere religioso (troppo spesso tramutato in superstizione) un potere politico ed economico. I Sikh non hanno la figura del prete, ma solamente quella di una “guida” che è semplicemente una persona che ha un po’ più di esperienza nelle scritture e può dirigerne, in un certo senso, la lettura e l’interpretazione, che, comunque, sono aperte a tutti i membri della comunità.





Allo stesso modo il Sikhismo non predica la povertà come elemento indispensabile per la salvezza (e quindi, ancora, non giustifica come “volere di Dio” il fatto che certe persone debbano nascere e morire povere), ma sostiene che ogni uomo abbia il diritto e il dovere di perseguire il benessere (nei canoni dei principi del rispetto e dell’onestà) proprio e della propria famiglia e che il lavoro, in questo senso, sia un elemento di elevazione morale.

Il decimo e ultimo Guru del Sikhismo introdusse l’idea del battesimo: battezzando cinque discepoli e facendosi a sua volta battezzare da essi, simboleggiò il fatto che tutti gli esseri umani sono uguali e che nessuno può ritenersi “superiore” e arrogarsi il diritto di battezzare gli altri per auto proclamazione.

A seguito di questo battesimo nacque l’idea del Sikh “Khalsa” o “puro”. Il Sikh Khalsa fa voto di seguire sempre i dettami del Sikhismo e di portare sempre con se le cinque K che simboleggiano la sua scelta.

Ognuno di questi simboli ha, a sua volta, un significato profondo ed affascinante.





Kirpan: è il coltello che il Sikh porta sempre con se e simboleggia l’idea del “Santo guerriero”. Il Sikh, infatti, predica la pace e la mansuetudine, ma è pronto, qualora le circostanze non lascino scelta, a combattere e morire per difendere la giustizia e difendere i deboli (anche se di razza, sesso, o religione diversa). Questo, specialmente all’epoca, era un concetto rivoluzionario perché liberava le masse dall’idea di dover sopportare in terra ogni abuso in attesa della vita eterna. Il Sikh, se vede un’ingiustizia, è pronto a combatterla versando il proprio sangue. Da questo concetto è nata la nible e antichissima tradizione guerriera dei Sikh che hanno sempre costituito corpi speciali nell’esercito coloniale Inglese prima (che guarda un po’, li mandava sempre avanti per primi) e Indiano poi. In pochi lo sanno, ma in Italia, durante la guerra di liberazione, sono morti quasi 10'000 Sikh per la nostra libertà!





Kesh: capelli e barba non tagliati. Il viso rasato, per i Sikh, è simbolo di vanità, quindi è vietato rasare o tagliare qualsiasi pelo del corpo. I capelli, lunghi, sono raccolti e coperti dal turbante. In India, in quegli anni, solo i nobili potevano indossare il turbante e questo era segno di distinzione dalla plebe. Per i Sikh la vera nobiltà è quella dell’animo e pertanto chiunque, se meritevole, può portare il turbante. Come abbiamo detto esiste la parità dei diritti (e dei doveri) fra i Sikh e questa cosa dei “peli” è, da quello che ho capito, una questione molto aperta fra chi sostiene che le donne possano esserne esentate e chi no.





Kanga: il pettine. Gli asceti dell’Induismo hanno sempre avuto, come simbolo della loro ricerca spirituale, i capelli lunghi e incolti. I Sikh Khalsa scelgono di non tagliare i capelli per esprimere il loro percorso verso il divino, ma si discostano dalla tradizione Indu obbligandosi ad avere capelli sempre ordinati e puliti, segno di disciplina e dignità personali. I Sikh devono fare almeno un bagno al giorno e lavarsi sempre prima di entrare nel tempio.



Kara: il bracciale. Il bracciale, di metallo, sempre al polso del Sikh Khalsa, simboleggia il fatto che le azioni del Sikh sono libere, ma vincolate dalla morale Sikh dettata da Dio, come una mano che guida o ferma il polso.





Kaccha: mutande lunghe. Si tratta in realtà di un pantalone corto da tenere anche sotto agli altri vestiti. Probabilmente usato sia per comodità di combattimento, sia per simboleggiare la continenza e l’igiene personale.

I templi Sikh possono essere anche molto semplici perché, come ho detto, non esistono idoli o immagini del divino da adorare. Il tempio è quindi concentrato in una sala, solitamente ricoperta di tappeti, nella quale ci si riunisce intorno ad un trono su cui poggia l’Adi Granth, il libro che contiene gli insegnamenti dei Guru e che rappresenta, come già detto, l’unica vera guida dei Sikh. Il tempio è soprattutto luogo di incontro e, dove è possibile, garantisce ospitalità a chiunque.



Insomma, da questo breve e indegno riassunto dell’ideologia Sikh, spero traspaia un minimo del fascino di questa religione.

Tornando al discorso iniziale, quando ho scoperto, per caso, che a Novellara, vicino a Reggio Emilia, c’era un Gurdwara, tra l’altro anche piuttosto importante, ho deciso di fare di tutto per andarci.

Così venerdì mattina, appena arrivato all’aeroporto di Bologna, ho preso l’autobus per la stazione dei treni e, una volta li, ho acquistato il biglietto per Novellara (con cambio a Reggio).



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Dopo qualche minuto sono salito sul regionale verso Reggio e, una volta li, ho cercato di capire quale fosse il convoglio per Novellara. In Sardegna si viaggia poco in treno, specialmente chi è cagliaritano come me e, in ogni caso, le tratte sono pochissime. E’ quindi naturale che di fronte a stazioni di 10 o 15 binari con treni che vanno e vengono ogni 30 secondi ci si senta un po’ sperduti. Insomma, una volta capito il numero del mio treno mi sono messo a leggere i tabelloni luminosi per scoprire che avevo 5 minuti per raggiungere il binario “2 FER”. Dal marciapiede, scorrendo i binari, potevo vedere il numero 1, poi direttamente 5, 6 fino a 12 o 13. Del 2 nemmeno l’ombra. Il tempo passava e il panico saliva, così mi sono messo a correre di qua e di la in cerca di aiuto fino a che non ho trovato un uomo vestito con quella che mi pareva una divisa. Fortunatamente si trattava di un impiegato FFSS che, guarda caso, stava proprio andando al treno che volevo prendere io. Mi ha così guidato per i sotterranei della stazione, per quelli che mi sono sembrati chilometri, e dopo una miriade di scale e di meandri siamo sbucati alla periferia (in tutti sensi) della stazione, in un binario semi abbandonato, lontanissimo da tutto. Sopra a quel binario c’era un trenino piccolo piccolo, di quelli che sono insieme vagone e locomotrice e che hanno la cabina di guida ad entrambe le estremità. Mi ha ricordato le “littorine” delle Ferrovie Complementari Sarde.

Appena salito mi sono sentito già quasi “arrivato” perché, fra le poche persone presenti, c’erano due donne dai vestiti e dai lineamenti inequivocabilmente indiani, e un ragazzo probabilmente africano.

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Sapevo, infatti, che Novellara rappresenta un esempio concreto di integrazione dato che l’amministrazione Comunale ha avviato numerosissime iniziative in merito fra gemellaggi e manifestazioni. Il fatto stesso che il paese ospiti un Gurdwara e una Moschea (che spero di riuscire a visitare la prossima volta) la dice lunga sulla questione.

Comunque il trenino ad un certo punto si è messo in moto e, con un rumore tipo quello di un pullman diesel, è partito allegramente per una stradina di campagna. Il fatto che si sentissero innestare e scalare le marce, una dietro l’altra, mi ha dato davvero l’idea di essere su un pullmino il che ha reso tutto più “piccolo”, più intimo. Ad un certo punto è passato un tipo che è entrato nella cabina di pilotaggio di coda e ha frugato qualcosa. Ho immaginato che fosse un ferroviere e gli ho domandato se mi avesse saputo indicare a quante fermate mancassero a Novellara. Mi ha risposto che avrei dovuto chiedere al “capotreno”. Questa cosa mi ha fatto sorridere; un trenino da 30 posti aveva il “capotreno”, il che significava che ci dovesse essere anche un equipaggio. Ad ogni modo dopo qualche minuto è ripassato il signore che mi aveva fatto da guida alla stazione, a controllare i biglietti, e, gentilissimo, mi ha detto, come poi ha fatto, che mi avrebbe chiamato quando fossimo giunti a Novellara, perché era impossibile contare le fermate in quanto certe erano a richiesta e certe no.

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Arrivo finalmente a Novellara e mi accorgo che la stazione o è chiusa o proprio non c’è (non l’ho capito bene) e mi viene il panico perché non so come fare per acquistare il biglietto per il ritorno. Chiedo aiuto e mi indicano una tabaccheria. La mia idea “internazionale” di Novellara prende sempre più corpo dato che al banco c’è una signora slava che, gentilissima, mi indica anche la direzione per il Tempio. Dice che a piedi “è lontano”, ma dalla cartina su Internet che ho consultato qualche giorno fa, risultano 2 o 3 km. Affondo le mani nelle tasche del giubbotto e mi incammino. Fa freddo, ma c’è il sole e camminando non soffro per niente. La direzione dovrebbe essere quella della periferia, forse di una zona “industriale”. Percorro un lungo viale fra larghi marciapiedi e casette basse, moderne, con giardino. Una targa su un cancello dice “Avvocato” e sotto riporta quella che immagino sia la stessa parola scritta in arabo.

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Poco più avanti, lungo la strada, un uomo in bicicletta; ha il turbante: il mio primo Sikh!

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Continuo a camminare a raggiungo un enorme negozio di alimentari importati dall’India.



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Faccio per avvicinarmi a chiedere indicazioni, ma il proprietario è al telefono. Allora vado poco più avanti e chiedo indicazioni al personale di un distributore. Ancora mancano circa 2km.

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Mi rimetto a marciare e, da lontano, intravvedo il secondo distributore che mi hanno dato come riferimento. Giunto li chiedo ancora informazioni e il ragazzo alla pompa mi dice “E’ proprio li, vedi?” indicando un capannone bianco con in cima un enorme Khanda, il simbolo dei Sikh, che rappresenta una spada a doppio taglio. Poco più a destra vedo un enorme palo dorato con una bandiera rossa che sventola.

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Mi dirigo speditamente verso il capannone, in quella che effettivamente sembra una zona industriale. Faccio un piccolo tratto di sterrato che, per via della pioggia e della neve di stanotte, è praticamente un pantano. Arrivato quasi al recinto vedo che ci sono degli scaffali di legno e delle panche, sugli scaffali scarpe e chino un ragazzo con una bandana in capo.

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Si gira e i suoi lineamenti sono tipicamente orientali. Mi avvicino e lo saluto, lui mi risponde sorridendo con un italiano stentato. Gli chiedo se posso visitare il Tempio al che mi risponde con entusiasmo di andare senza indugio. Mi chiede quale sia il mio paese, in effetti tutto imbacuccato, con la carnagione scura, barba scura e lineamenti non proprio delicatissimi, a seconda delle circostanze, mi si può prendere per un mediorientale o per un indiano (in India le guide volevano sempre farmi passare per Indu per farmi entrare nelle zone riservate dei templi). Al mio “sono italiano” si entusiasma, sorride e si sbraccia indicandomi l’ingresso del Tempio mentre ondeggia la testa (tipico gesto di cortesia indiano), agitando la sua bandana dal viola acceso con il Khanda dorato sulla fronte. C’è un freddo cane, sono nel mezzo di una zona industriale dell’Emilia, fra un distributore, una strada sterrata e capannoni in metallo, ma mi sento di nuovo nella calda, chiassosa, colorata e allegra India dei miei viaggi.

Visto che le scarpe sono fuori dal recinto gli chiedo se devo togliermele prima di varcare il cancello, ma lui mi dice che oggi non è festa e non ce n’è bisogno.

Superato l’ingresso del recinto mi dirigo verso l’ingresso del capannone. In effetti non è un capannone, è una costruzione in muratura, funzionale, semplice, tutta bianca, pulita. Non è una cattedrale, ma non è nemmeno un freddo caseggiato industriale. L’ingresso presenta una doppia scalinata che porta al piano superiore, coperta da una volta ad arco e a tetto spiovente. Subito fuori dalla porta a vetri ci sono un sacco di scarpe per terra, delle panche e una specie di vasca con due fontane.

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La parete è costellata di fogli e poster, tutti scritti con caratteri Punjub, immagino, o in Hindi (non li distinguo!). C’è un solo cartello in italiano e dice qualcosa come: “Questo è un Gurdwara un tempio Sikh. Siete i benvenuti. Vi chiediamo di rispettare alcune semplici regole: coprirvi il capo, togliervi scarpe e calze, lavarvi mani e piedi prima di entrare, spegnere le suonerie dei cellulari.”.

Mi siedo in una panca e mi levo le scarpe e le calze, mi rialzo e un ragazzone esce dal Tempio, anche lui con una bandana in testa, ma arancione. Lo saluto e gli chiedo se posso entrare. Mi dice assolutamente di si. Gli chiedo se devo lavarmi alla fontana e mi dice che bastano le mani. Gli chiedo allora se vada bene la cuffietta che ho in testa e mi dice che mi devo mettere la bandana. Andiamo insieme verso una cesta che ne contiene a dozzine, di 4 o 5 colori forti come il viola e l’arancione che ho appena visto. Ne prende uno e mi aiuta ad annodarlo in testa.

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Insieme entriamo nella sala. E’ un ambiente molto grande, tipo 30 metri per 15, intervallato da pilastri. Il pavimento è scuro, con lunghissimi tappeti/passatoie disposti per lungo, a due metri l’uno dall’altro. Le pareti sono chiare e con molte finestre e dove non ci sono finestre ci sono quadri e poster. Dalla parte opposta all’ingresso vedo alcune porte e nell’angolo destro una porta e una enorme apertura danno a quella che sembra la cucina di una mensa che trabocca per qualche metro nella sala, invadendola con carrelli e pentole. Ancora, lungo tutta una parete, tavoli, fuochi, pentole impilate e provviste come verdura e sacchi di patate.

Più o meno sparsi nella sala ci sono una dozzina di uomini; tre o quattro indaffarati nella cucina, altri quattro seduti in terra, sul tappeto, che mangiano da un vassoio di metallo, alcuni che chiacchierano in piedi vicino alle provviste.

Il ragazzo col quale sono entrato mi dice di sedermi a mangiare, evidenziando che è gratis. Non esito quindi a sedermi in mezzo alle altre persone e sorrido salutando. La risposta è quella tipica degli indiani, sorridono e muovono il capo. Capisco che non parlano italiano e la cosa mi incuriosisce. So, per sentito dire, che molti di loro lavorano nei campi e nelle stalle e che probabilmente si tratta di una comunità per cui molti non hanno nemmeno contatti con gli italiani, se non minimi.

Un uomo piccoletto, ma dai lineamenti incredibilmente marcati e fieri, mi porge il vassoio e mi punge con due occhi grigi vispissimi. Per un attimo mi passano davanti le immagini dei combattivi e allegri pirati guasconi del “Sandokan” della RAI dei primi anni ’70. Mi parla in Punjubi (e chi lo capisce?), ma sa benissimo che non capisco niente così ogni parola è accompagnata da vistosi gesti: “poggia il vassoio così”, “ti servo io”, “il bicchiere si incastra qui”, “no no, lascia il vassoio a terra altrimenti non riesco a versare” e così via.

Mi ritrovo con un vassoio da tavola calda colmo di cibo: riso bianco con spezie, una vaschetta traboccante di una zuppa verde con dei pezzettini di qualcosa sul giallo e un’altra vaschetta con una zuppa rossastra di legumi. Il profumo è densissimo di spezie e, di nuovo, mi sento strappato e trasportato in un attimo per le vie di Kochin, Madras o qualsiasi altra città, fra i fumi dei “fast food” indiani.

Cosa sarà quella roba gialla nella zuppa? Per un attimo immagino le bestie più immonde, poi ricordo che i Sikh sono vegetariani e che per rispetto di tutte le religioni, nei loro templi offrono solo cibo vegetariano così da essere sicuri di non offendere nessuno. In India ho imparato che il cibo vegetariano, per quanto possa non piacerti, non ti potrà mai fare “schifo” come può fare un certo tipo di carne, a seconda della tua cultura e delle tue abitudini alimentari. So anche che la cucina indiana mi piace moltissimo quindi vado sul sicuro. Ma la cosa più importante e che tutti coloro che amano viaggiare sanno, è che l’offrire e l’accettare il cibo è il primo simbolo di contatto fra due stranieri (culturalmente parlando) e di questa offerta i Sikh fanno simbolo di ospitalità è fratellanza.

Il cuoco torna con un innaffiatoio col quale mi riempie il bicchiere di acqua e poi mi appioppa due dischi di pasta fumante. “Chapati”, mi dice (il buonissimo pane schiacciato indiano) e mi indica il mio vicino di tappeto per farmi vedere come mangiare inzuppandolo.

So già come si mangia il Chapati con le mani, ma non mi nascondo che il fatto che sappia il “come” non significa necessariamente che lo sappia fare davvero. Ad ogni modo ci provo ed esattamente come in India qualche anno fa, quando feci sbellicare dal ridere i miei amici che mi ospitarono a pranzo a casa loro, faccio un mezzo impiastro. Almeno questa volta mi ricordo che si mangia solo con una mano (che si sporca) mentre l’altra è dedicata a bicchiere e simili e deve rimanere pulita. Fu pazzesco rendermi conto di come non sia capace di mangiare con le mani, dovrebbe essere la cosa più naturale del mondo! Invece mi ritrovai sporco di riso fin dentro le maniche, con sughi e spezie fino ai capelli e la bocca completamente sbrodolata. Questa volta sembra andare un po’ meglio e la peggio, invece della mia faccia, la hanno i miei pantaloni, come avrò modo di rendermi conto in aeroporto. Anche questa volta non posso che ammirare l’eleganza e la precisione con cui gli indiani mangiano con sole tre dita.

Ad ogni modo mangio tutto davvero con gusto, intervallando i bocconi allo scambio di sorrisi con i miei commensali e con chi passa per la sala. Sappiamo che possiamo comunicare ben poco visto che le lingue non coincidono, ma non ce n’è bisogno. Non so spiegare perché, ma mi sento “a casa”.

Lotto un po’ con il cuoco che vuole darmi un’altra razione, ma non ce la faccio davvero, ho la pancia piena! Accetto di buon grado un altro disco di Chapati per pura golosità. Finito di mangiare faccio per alzarmi e “sparecchiare”, ma a gesti mi si fa capire che ritireranno loro.

Allora faccio un giro per la sala a guardare i quadri e i poster. Sono tutti in lingua Punjub o Hindi e non capisco niente. Le immagini, comunque, rappresentano scene storiche, con martiri Sikh giustiziati da quelli che sono chiaramente dei tiranni oppure eroi, sempre Sikh, acclamati dalle masse.





Moltissimi sono semplici ritratti di uomini con lunghe barbe, foltissimi baffi e turbanti. Finalmente vedo un poster in italiano: raffigura dei soldati Sikh, e il testo spiega che l’associazione Sikh Italia sta cercando di raccogliere i fondi per erigere un monumento a tutti i Sikh caduti in Italia durante la liberazione. Vorrei lasciare un piccolo contributo, ma non so come fare, allora chiedo aiuto al cuoco. Io in italiano e lui in Punjubi/Hindi non ci capiamo. Capisco che lui capisce che mi piace il poster e che lo voglio comprare. Capisco anche che sta cercando di dirmi che sono finiti, ma sicuramente non ho capito. Allora, per “fare a capirsi”, si avvicinano altre 3 o 4 persone e la confusione cresce fra le risate di tutti perché la situazione è davvero buffa. Per ultimi si avvicinano tre uomini più anziani degli altri, che invece del bandana indossano veri e propri turbanti. I lunghi vestiti coprono le loro abbondanti pance che, forse per via del portamento regale, delle barbe bianche e degli imponenti baffi, sembrano rappresentare quel simbolo di saggezza e superiore serenità dei santi indiani Indù e Buddisti (perché credete che Buddha sia sempre rappresentato con una grande pancia, almeno in India?). Chiedo loro se parlano inglese, ma mi dicono di no. Per fortuna, però, uno di loro parla un po’ di italiano e possiamo finalmente comunicare. Mi spiega che di venerdì, specialmente a quell’ora (sono più o meno le 13), non c’è nessuno dell’associazione e che se potessi tornare l’indomani o domenica potrei parlare direttamente con loro, oltre a vedere il Tempio con molte più persone. Gli spiego che, purtroppo, non posso tornare, ma che sono comunque molto contento di aver visto il Tempio e di essere con loro. Finalmente riesco a spiegare che vorrei lasciare una piccola offerta in denaro per la costruzione del monumento e lui traduce tutto a un altro degli anziani che sembra un po’ preso alla sprovvista.



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Insieme ci dirigiamo in una stanza che credo sia la “segreteria” o qualcosa del genere. L’altro anziano cerca fra cassetti e armadi il libretto delle ricevute e nel frattempo scambio due chiacchiere con quello che parla italiano.

Mi spiega che il Tempio è aperto 24 ore su 24 e che offre ospitalità a chiunque “mangiare, dormire, non si paga, non è un albergo!”. Mi racconta di aver lavorato in un circo (purtroppo non riesco ad approfondire la cosa) e di essere anche stato diverse volte a Cagliari. Mi dice che in quella zona i Sikh si trovano bene e che ci sono altre comunità popolose nella zona di Brescia e nella zona a sud di Roma. L’altro anziano trova il libretto delle ricevute e comincia a scrivere fino a che chiede qualcosa all’”interprete” che, a sua volta, chiede il mio nome. “Come si scrive?”. Concordiamo che facciamo prima se lo scrivo io, così mi trovo fra le mani una ricevuta intestata “Gurdwara Singh Sabha” in cui gli unici caratteri occidentali sono quelli del mio nome. Tutto il resto è Punjubi o Hindi (bisogna che mi decida ad imparare almeno a distinguerli): fantastico!

Ora gli anziani devono andare, stanno finendo di caricare un furgone per portare il pranzo da qualche parte, non ho capito bene se agli operai di una fabbrica o ai disoccupati. “Ci sono indiani, italiani, africani, noi portiamo da mangiare a tutti loro”.

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Li saluto calorosamente e spero sinceramente di poter tornare presto. Esco dalla sala principale e mi dirigo verso il Tempio vero e proprio al piano superiore, attraverso la doppia scalinata. Anche l’ingresso del Tempio è a vetri, leggermente scuri, così che si possa comunque vedere l’interno. La sala è grande quanto quella inferiore, ma è completamente ricoperta da tappeti rosso vivo. Sulla destra un tavolo coperto da un telo bianco, con tre sedie e tre microfoni, leggermente più a sinistra noto il trono su cui poggia l’Adi Granth, una sorta di baldacchino tutto rosso, bianco e dorato. Intorno alcune persone sedute che pregano. Tutto è molto sobrio, ma al tempo stesso molto ordinato, austero, ma anche accogliente e sereno.

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Non essendoci nessuno a portata di mano e non sapendo come comportarmi e magari disturbare o violare qualche particolare regola, decido di non entrare. Torno all’ingresso, mi tolgo la bandana e la ripongo nella cesta. Quindi mi infilo nuovamente calze e scarpe e faccio qualche foto all’esterno del Tempio. Sono stato qui un’ora, forse un’ora e mezza e, alla fine, non è che sia successo granché; non sono nemmeno riuscito a parlare bene con qualcuno e capire chi siano i Sikh di questa zona, che lavoro facciano, da dove vengano.. ma non mi importa, mi sento comunque appagato. Forse è proprio questa la forza di questa esperienza, l’accoglienza pura. Sono stato ospite dei Sikh senza che loro mi chiedessero chi fossi, da dove venissi, perché fossi li. Sono stato semplicemente un uomo a cui hanno offerto un tetto e del cibo, un uomo, me stesso, senza il mio nome, il mio lavoro, la mia città.

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Con questi pensieri mi incammino verso la stazione, immaginando Novellara esempio di come l’integrazione possa essere una cosa concreta. In effetti conosco pochissimo di questo paese e i pensieri che ho in proposito sono probabilmente solo frutto della mia fantasia incantata, che immagina questa cittadina come un’utopia.

Penso però che, volenti o nolenti, gli immigrati esistono, esisteranno ed aumenteranno sempre più. E’ un fenomeno al quale non ci si può opporre non solo per questioni morali, ma semplicemente perché è ormai inarrestabile. E allora tanto vale rendersene conto definitivamente e cercare la soluzione migliore per tutti, senza ostinarsi in progetti assurdi (ancora una volta non solo in senso morale) come una cacciata totale, la chiusura delle frontiere, la segregazione e assurdità del genere, quelle si utopistiche perché assolutamente non realizzabili in pratica.

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Mentre aspetto il treno alla stazione assisto a quella che sembra una scena preparata per un film. Due ragazzini aspettano un convoglio, uno evidentemente indiano e l’altro evidentemente africano, chiacchierano allegramente. Dopo qualche minuto arriva un treno e scendono altri due ragazzini, uno mi sembra italiano, l’altro è sicuramente cinese. L’indiano si avvicina subito e dice “Ciao, in che scuola andate?” e presenta l’amico. Ne nasce una divertente conversazione fatta di “e lo conosci Tizio? E’ marocchino e gioca a pallone con i due gemelli rumeni”. La cosa più curiosa è che da quello che capisco il ragazzo cinese parla poco l’italiano perché è qui da poco e l’italiano gli fa da interprete traducendo in cinese/inglese e gesti per lui. Non ho capito come mai l’italiano sappia il cinese o se, semplicemente, cerca di farsi capire con le parole che magari gli ha insegnato il cinese stesso. Vedendo questi quattro ragazzi mi viene in mente una domanda “Ma insomma, alla fine sarebbe proprio così difficile?”.



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